American Vandal: una serie di cui abbiamo bisogno
- Antonio Giannotte
- 28 mar 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 1 apr 2020
Una dei più sottovalutati prodotti della produzione Netflix. È così che possiamo sintetizzare l’essenza di American Vandal, uno dei lavori passati più in sordina della casa delle serie TV. Eppure, seppur con un trailer pubblicitario divertente ed accattivante, questa serie non ha avuto il giusto riconoscimento, venendo addirittura cancellata dopo la seconda, e quindi ultima, stagione. Ma di cosa tratta American Vandal?
La prima stagione inizia a raccontarci la storia di un’indagine di un reporter in erba, lo studente Peter Maldonado (interpretato da Tyler Alvarez), che, a seguito di un improvviso atto di vandalismo nel cortile del suo liceo, si arma di carta, penna e videocamera per fare luce sull’accaduto, intervistando indiziati, studenti e docenti.
Se dalle premesse vi sembra una trama tutto sommato ordinaria, a farvi cambiare idea sarà sicuramente l’entità di questo atto vandalico: ogni auto parcheggiata nel cortile riservato agli insegnanti è stata imbrattata con degli enormi peni. Il consiglio d’istituto punta immediatamente il dito contro Dylan Maxwell (Jimmi Tatro), il classico buffone della classe, non nuovo a scherzi e burle. Ma sarà veramente lui il colpevole?
Toccherà a Peter e ai suoi amici indagare a fondo grazie ad un vero e proprio True Crime ad episodi; è dal documentario del giovane film-maker che noi seguiamo l’intreccio narrativo, girato proprio con la video-camera sulla spalla, donando un effetto di realismo efficacemente costruito.

La caratteristica di American Vandal, dunque, è quella di essere un mockumentary dissacrante e serio al tempo stesso. Dissacrante perché, con i giusti tempi comici e con battute fulminanti, riesce a strappare più di una risata, parodizzando i prodotti True Crime che infestano il piccolo schermo: vedremo ragazzini goffi spiattellati davanti ad una telecamera rispondere in modo insicuro o divertito ad un’intervista dal sapore professionale; vedremo teorie e complotti legati ai disegni fallici; scopriremo le storie degli alunni del liceo che, come ogni storia di quell’età, ha risvolti spesso divertenti e goliardici.
Da notare, inoltre, l’ottima scelta da parte dei doppiatori italiani di doppiare con l’impostazione tipica dei documentari: leggermente fuori synch e con le voci originali lasciate in sottofondo. Sono tante piccole perle che impreziosiscono il tutto, rendendolo più reale e marcando l’intento parodistico dell’opera.
Ma si tratta anche di un’indagine seria ed approfondita, dove nulla è lasciato al caso. Peter e il suo team raccolgono indizi, formulano ipotesi, chiedono spiegazioni e, spesso, giungono a delle conclusioni. Ogni dato raccolto e analizzato non è fine a sé stesso, neppure un preliminare (e per preliminare intendo quello a cui tutti state pensando). L’approccio con cui si sviluppa la trama è straordinariamente interessante, coerente e, alle volte, persino geniale.
Ma ridurre il tutto a questo snaturerebbe l’intento ultimo di questa serie, un intento che, dalle premesse, non si ci potrebbe aspettare.
American Vandal diventa, episodio dopo episodio, un’incredibile analisi della nostra società: la falsità, la gogna mediatica amplificata da una sempre maggiore rete sociale, le maschere che tutti noi indossiamo per sentirci parte di un gruppo, ma soprattutto le conseguenze che le idee degli altri hanno su di noi. È su questa ultima caratteristica che la serie ha il suo perno, mostrandoci la pericolosità di accomodarci sui pareri che gli altri hanno di noi, accettandoli anche se sono sbagliati e rendendoli, in questo modo, funzionalmente veri, rendendoci il “mostro” che gli altri ci dicono di essere e che, in realtà, non siamo. Tutto questo, e ciò penso che sia essenziale in un periodo in cui le serie teen abbondano, non circoscrivendo il tutto ad una rozza critica alle “nuove generazioni”, ma facendo parlare e descrivendo anche il mondo adulto. La serie dunque offre uno spaccato paradigmatico delle modalità con cui l’uomo si relaziona e agisce nella società.
L’indagine di Peter riesce ad estrapolare sì delle informazioni, tra persone che si accusano o difendono per interesse o convinzioni irrazionale e violente, ma ancor meglio ci mostra chiaramente un funzionamento sociale che si basa su un sistema di valori vacuo e pieno di pregiudizi. Gli eventi, le persone e i loro comportamenti sono frutto di uno specifico rapporto causa-effetto che si instilla, volente o nolente, in un contesto sociale e culturale in cui l’apparire sembra essere più importante dell’essere, portando a svolte di trama impensabili e incredibilmente profonde. Nella seconda stagione, poi, questo elemento è esplorato ancora meglio e sotto un’altra luce: la gogna per portare avanti il proprio tornaconto personale e garantire una “giusta pace”, seppur con mezzi amorali, e lasciando dietro alla propria scia vittime innocenti.
Entrambi i finali di stagione sono, a tal proposito, da brividi.
Si è parlato di come Tredici dovrebbe, secondo alcuni, essere visto nelle scuole. Eppure, se c’è una serie TV che riesce a parlare realmente di bullismo, della sopraffazione, dell’autorità violenta senza fronzoli, che faccia capire le conseguenze più comuni e universali di una società come quella in cui viviamo senza trovate caricate ed eccessivamente pirotecniche, ma vere, esilaranti e qualche volta crude, beh, quella serie è senza dubbio American Vandal.
Cavolo, mi hai fatto venire voglia di vederla!!!!