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Il diritto ad avere pari opportunità formative è effettivamente reale?

Aggiornamento: 4 giu 2020

Uno dei cardini del welfare state (stato sociale) di qualunque Stato occidentale -e non- è naturalmente il sistema scolastico: la formazione scolastica universale risponde infatti al diritto umano all’istruzione sancito dall’Art. 26 (comma 1) della Convenzione dei Diritti Umani siglata nel dicembre 1948.

“Ogni individuo ha diritto all'istruzione. L'istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L'istruzione elementare deve essere obbligatoria. L'istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l'istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito.“


Anche la Costituzione Italiana, all’Art. 34, sancisce che:

“La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”

Lo spirito con cui 58 capi di Stato siglarono a Parigi quell’importantissima convenzione, e con cui i nostri Padri costituenti inserirono il diritto alla scuola nella nostra Costituzione, non fu sicuramente quello della convenienza politica o della retorica paternalistica; tutt’altro, furono tra i primi a capire la centralità e l’utilità etico-sociale dell’istruzione in un Paese democratico, non solo per la formazione di cittadini consapevoli e difficilmente manipolabili (dunque capaci di evitare l’eventuale ascesa di nuove dittature nazifasciste), ma anche per la formazione di cittadini in grado di trainare il proprio Paese allo sviluppo economico e di lavorare nel complesso sistema burocratico (che, checché se ne dica, era e resta l’unico argine all’anarchia e al disordine). Insomma, il diritto all’istruzione nacque proprio con lo scopo che fosse l’intera società a trarne giovamento: i politici dei primissimi anni del secondo dopoguerra ne erano così convinti che “la spesa per l’istruzione passò dal 5,6% del bilancio complessivo dello Stato del 1946 al 9,7% del 1952” (da un’intervista ad Anna Maria Poggi, Docente di Diritto Costituzionale all’Università di Torino).


Ma oggi è ancora così? Oggi l’istruzione è ancora centrale nella spesa pubblica di uno Stato? E soprattutto: oggi il sistema scolastico ed educativo italiano è ancora in grado di rispondere a tutti i commi degli articoli sopra citati? È ancora in grado di garantire pari opportunità ai propri ragazzi indipendentemente dalla nazionalità, dalla lingua, dalle disponibilità economiche, dall’estrazione sociale e dalla provenienza territoriale?


Sebbene i problemi di analfabetismo, scuola elitaria e obbligo scolastico - con cui i governanti e i Ministri dell’Istruzione del nostro Paese hanno avuto a che vedere dal 1861 fino alla seconda metà del Novecento - possano essere considerati risolti, ciò non vuol dire assolutamente che il diritto all’istruzione sia oggi finalmente garantito per tutti, ovunque e con pari opportunità di partenza.


Come prima dimostrazione di questa tesi, c’è l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, il grande programma di obiettivi sottoscritto nel 2015 dai governi di 193 Paesi membri dell’Onu: il fatto che il 4° Obiettivo per lo Sviluppo Sostenibile dell’Agenda sia quello di “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti” è chiaramente la prova che nemmeno nei Paesi del primo mondo (come l’Italia) il diritto all’istruzione sia garantito per tutti, ovunque e con pari opportunità di partenza.


Il portale online OpenPolis, noto peri suoi approfondimenti e report sulla povertà educativa in Italia, si pone proprio l’obiettivo di evidenziare le criticità e le falle nel sistema educativo e scolastico italiano, pur mantenendo sempre un atteggiamento costruttivo. L’ultimo report pubblicato il 3 marzo 2020 da openpolis.it, “I minori stranieri nelle scuole italiane, tra disuguaglianze e diritto all’inclusione”, contiene al suo interno interessanti dati in grado di supportare la tesi, approfondendo nello specifico la situazione degli studenti di nazionalità non italiana. In primo luogo, la relazione spiega come la lingua sia un forte elemento discriminatorio di partenza: la scuola italiana, per ovviare a questo problema, ha sempre optato per l’inserimento in ritardo nel sistema scolastico. Tuttavia, sebbene questa scelta venga presa per andare incontro alle difficoltà dei ragazzi stranieri, “la scuola spesso non riesce a colmare il divario di apprendimento iniziale, nel corso degli anni. Questa mancanza, sommata alle difficoltà socioeconomiche originarie della famiglia (secondo i dati 2017, il 29% delle famiglie di soli stranieri vive in povertà assoluta, contro il 5% di quelle italiane) e del contesto di appartenenza, fanno sì che il ritardo si accumuli ulteriormente, diventando sistemico”. I dati riferiti all’anno scolastico 2017-2018 dimostrano infatti come il 30,7% degli studenti stranieri non frequenti la classe adeguata alla propria età anagrafica, a fronte del 9,6% di studenti italiani. Il dato peggiora però prendendo come denominatore gli studenti delle scuole superiori: quasi il 60% degli studenti stranieri (a fronte del comunque preoccupante 20% di studenti italiani) ha accumulato almeno un anno di ritardo nel proprio percorso scolastico. All’aumentare della complessità dello studio, aumentano anche le difficoltà dei ragazzi stranieri che non sono riusciti a colmare il divario linguistico di partenza: sono dunque veramente pari le opportunità formative di partenza per gli studenti delle nostre scuole? Possiamo veramente ridurre l'intera questione al divario linguistico come spiegazione?


Come sostenuto nella seconda parte del report, il problema degli anni di ritardo nel percorso scolastico è fortemente legato al tema dell’abbandono scolastico con un rapporto di tipo causale: tra il 2016 e il 2018 l’abbandono degli studenti è passato dal 13,8% al 14,5%, un dato che si aggrava guardando la situazione degli studenti non italiani (dal 32,8% del 2016 al 37,6% del 2018). Una società nella quale crescono i numeri dell’abbandono scolastico può definirsi una società che guarda realmente al futuro? Come sostenuto dai nostri Padri costituenti, l’istruzione non deve essere un onere degli insegnanti o dei genitori, ma la sua garanzia e la sua efficienza devono essere un dovere dell’intera società perché è l’intera società a trarne giovamento. Ecco dunque perché è ora necessario “migliorare i processi di integrazione degli alunni stranieri nelle scuole”, affinché da una parte loro possano garantirsi per il futuro prospettive socioeconomiche promettenti, e dell’altra si possa aumentare la qualità dei percorsi educativi nelle classi: abbattere il problema linguistico significa anche, e forse soprattutto, questo. OpenPolis definisce infatti l’inclusione nelle scuole di minori con un background culturale diverso da quello del paese ospite “una risorsa per tutti”. Il fatto però che in tutte le regioni del Mezzogiorno la percentuale di alunni con cittadinanza non italiana sia fortemente inferiore alla media nazionale rappresenta un altro elemento di disuguaglianza di opportunità sia per i ragazzi italiani sia per quelli stranieri: la distanza tra Campania e Sardegna, ultime in questa speciale classifica con il 2,5/2,6%, e Emilia Romagna e Lombardia, prime con il 15,8/16,1%, è clamorosa.


In un altro report dal titolo “Tante Italie in cui crescere”, openpolis.it approfondisce il problema delle disuguaglianze educative in merito alle diverse provenienze geoeconomiche. Quello dei servizi per la prima infanzia è il tema che emerge con più forza: se l’obiettivo europeo sancito a Barcellona nel marzo 2002 dal Consiglio europeo era quello di offrire almeno 33 posti nei servizi per la prima infanzia ogni 100 bambini residenti, in Italia oggi i posti non sono in media più di 24. Il focus fondamentale su cui il portale online vuole concentrarsi sono però le profonde differenze da regione a regione: se in Valle d’Aosta, Umbria, Emilia Romagna e Toscana l’offerta supera la soglia dei 33 posti ogni 100 bambini, in Campania, Calabria e Sicilia i posti non superano i 10 ogni 100 bambini. Inoltre, nessuna provincia meridionale raggiunge una copertura di 20 posti ogni 100 neonati nei servizi di prima infanzia. Le differenze però sono profonde anche a livello intra-regionale: se la città metropolitana di Milano ha numeri in linea con le medie europee, la provincia di Sondrio non raggiunge i 20 posti ogni 100 bambini. Anche in Sardegna i dati sono molto distanti tra province: se in quella di Sassari o di Carbonia i numeri sono superiori all’obiettivo di Barcellona 2002, nella provincia di Ogliastra i numeri rientrano nella media di tutte le altre province meridionali. A livello comunale, se Crotone offre 4,7 posti ogni 100 bimbi, Bolzano e Siena arrivano oltre i 60 posti ogni 100. Numeri discordanti, differenze profonde, che diventano profondissime se si pensa che più di 4,3 comuni su 10 non dispongono di servizi di prima infanzia nel proprio territorio. Considerando l’asilo nido e il servizio di prima infanzia come una tappa fondamentale nel percorso educativo di uno studente, siamo (anche in questo caso) certamente di fronte a una mancanza di pari opportunità formative di partenza.


Nascere in una famiglia di lingua italiana nell’Italia di Serie A non è come nascere in una famiglia di lingua non italiana nell’Italia di Serie B, e le differenze sono molto più nette di quanto si potesse immaginare.

Non necessariamente però, come si è visto precedentemente, l’Italia di Serie A coincide con l’intero settentrione. Open Polis, in un altro report socio-geografico sulla povertà educativa in Italia, denuncia infatti come la diseguaglianza di opportunità formative (in questo caso a livello di servizi all’interno degli edifici scolastici) non riguardi solamente il Mezzogiorno. In “Le mappe della povertà educativa”, openpolis.it approfondisce due servizi essenziali per l’educazione come il servizio mensa e la presenza delle palestre per l’attività motoria dei ragazzi. Per quanto riguarda il primo fondamentale servizio, i dati dimostrano come la percentuale di scuole con mensa sia a Treviso simile a quella di Sassari, sia a Brescia simile a quella di Vibo Valentia, sia a Reggio Emilia simile a quella di Brindisi. Ma non sono dati incoraggianti: solo in 26 province su 106 (106 sono le province per cui sono disponibili i dati) oltre la metà delle scuole ha la mensa. Ciò nonostante, a livello provinciale le differenze tra Centro-Nord e Sud tornano importanti: se a Lucca, Prato e Aosta gli edifici scolastici dotati di mensa sono attorno al 70% dei totali, a Ragusa sono solo l’1,29%, a Napoli il 3,22%, a Catania il 4,29%. La Sicilia è infatti la regione con meno mense negli edifici scolastici, ma il report di Open Polis dimostra anche come le diseguaglianze siano forti anche all’interno di questa stessa regione; se complessivamente non sono più del 10% le scuole siciliane dotate di mensa, la percentuale arriva al 20,3% per le scuole della provincia di Messina e oltre al 50% per il capoluogo messinese. Quali reali opportunità formative senza la possibilità di rimanere al pomeriggio per il tempo pieno, o per un corso extracurricolare, o per un normale lezione di approfondimento? Quale uguale diritto all’istruzione se a Ragusa, a Palermo o a Trapani i ragazzi non possono usufruire dello stesso servizio che tanto comodo fa alle famiglie di Udine, Grosseto e Alessandria?


Il secondo problema legato alla presenza delle palestre non è da meno. Come si può garantire un uguale diritto a una attività motoria in sicurezza se a Pordenone le scuole con la palestra sono il 65% e a Reggio Calabria sono meno del 20,5%? Sebbene la presenza di questo servizio in regioni come Puglia, Sardegna e Basilicata sia generalmente in linea con i dati del Centro-Nord Italia, in regioni come Campania e Calabria i numeri sono terrificanti; quello peggiore è del capoluogo Catanzaro (9%).


Di fronte a queste analisi, risulta evidente come il sistema scolastico italiano non stia vivendo una fase storica di equilibrio, prospettiva o prosperità, ma stia dunque facendo i conti con difficoltà simili (alcune immutate, alcune inedite) a quelle che la politica dovette affrontare diversi decenni fa. A dire il vero, con uno sguardo ai dati macroeconomici italiani e considerando la comprovata correlazione tra livello di educazione e il quadro socioeconomico di estrazione, il problema del sistema scolastico di non riuscire a offrire uguali opportunità a uguali studenti sul territorio nazionale sembra acuendosi. Ciò che però è certo è che l’idea che le mancanze del nostro sistema scolastico possano essere (anche solo temporaneamente) sopperite dalle associazioni di volontariato, operatori del terzo settore o privati cittadini di indubbia generosità è assolutamente inconcepibile. Uno Stato come l’Italia non può affidarsi nuovamente ad azioni di carattere individuale che richiamino in qualche modo l’esperienza della Scuola di Barbiana di Don Milani, ma deve fare in modo, come avrebbe dovuto fare allora, che ci siano le condizioni affinché l’onere dell’educazione non venga più preso dalla coraggiosa ed eroica volontà dei privati cittadini. Sebbene il contesto della scuola popolare di Don Milani fosse molto differente da quello in cui si intrecciano le difficoltà attuali del nostro sistema scolastico, il problema di fondo a cui il prete fiorentino cercò di dare soluzione era lo stesso di quello messo qui in evidenza: l’ingiustizia che non tutti i ragazzi italiani avessero accesso nello stesso modo al diritto universale all’istruzione. Tocca dunque alla politica il ruolo di dare una svolta al nostro sistema scolastico: il fatto però che lo Stato italiano destìni all’istruzione solo il 7,8% della spesa pubblica (ultima posizione in Europa, dove la media è del 10,2%) e spenda solo lo 0,3% nell'istruzione universitaria (penultima posizione in Europa, dove la media è dello 0,7%) - (elaborazione Osservatorio CPI su dati Eurostat 2011) - è inaccettabile.


Garantire uguali opportunità di istruzione in tutto il territorio nazionale non è solo un diritto dei nostri ragazzi, è un diritto dell’intera società, ed è pertanto l’intera società a doversi prendere l’onere di garantirsi questo privilegio.



Fonti dirette:


1 Comment


Unknown member
Apr 05, 2020

Ottimo!

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