I videogiochi sono arte?
- Antonio Giannotte
- 15 apr 2020
- Tempo di lettura: 5 min
In questi monotoni giorni di quarantena forzata, a furia di vedere film e serie, leggere libri e giocare ai videogiochi, mi è tornato in mente un dubbio che in realtà mi pongo da parecchio tempo: il videogioco può essere una forma d’arte? E qualora dovesse esserlo, come può manifestarsi?
Messa in questi termini la risposta può sembrare banale: «certo che il videogioco può essere una forma d’arte! Si tratta di un lavoro in cui la tecnica è al servizio dell’idea della mente umana». Ma basta questa definizione, forse un po’ troppo accademica, per inquadrare ciò che l’arte è e vuole essere?
Distaccandoci da questa idea dell’arte logica, ma non per questo non meritevole della nostra considerazione, mi piacerebbe ragionare più che altro su come l’arte viene concepita sul piano culturale e storico.
Come sappiamo, i media artistici si sono susseguiti in tempi e luoghi diversi, a cominciare dalla pittura (di cui possiamo ammirare i primi tentativi nell’arte rupestre), passando per la letteratura, il teatro e la musica, fino al cinema e alla videoart. Ognuno di questi “mezzi” ha significato, per il momento in cui è nato e si è sviluppato, un’opera umana al contempo originale e necessaria. Originale perché, in un certo modo, ci saranno stati al momento della sua “messa in scena” gruppi di persone a introdurla al resto della gente fino a rendere accettabile qualcosa fino ad allora considerata strana; necessaria perché, semplicemente, quel modo di esprimersi si è appoggiato efficacemente sulle esigenze e sulle evoluzioni tecniche del tempo.
I primi uomini a dipingere con le dita scene di vita quotidiane sono riusciti nell’intento mediante lo sviluppo della creazione dei colori, che venivano da loro usati per mimetizzarsi nella natura, garantendo sostentamento e sopravvivenza. Senza queste necessità avremmo avuto ugualmente la pittura rupestre?
Allo stesso modo la musica è servita alle società preistoriche più avanzate a tramandare un tipo di tradizione orale (tipica, per l’appunto, delle società avanzate) difficilmente memorizzabile: le leggi, le preghiere e le storie diventavano armonia, passando facilmente da padre in figlio.
Gli esempi con gli altri media possono continuare, ma la sostanza rimane la stessa: l’originalità di una nuova forma d’espressione è intrinsecamente legata alla necessità che questa forma d’espressione ha nella società.
Appurata questa visione storico-sociale, da cosa possiamo capire quando si parla di arte, nel senso più alto del termine?
I filosofi ne parlano da sempre, ma non mi va di rendere questo articolo un Bignami sull’estetica o una raccolta di massime e citazioni. Una citazione, però, la voglio mettere in mezzo, ed è del grande regista e teorico della cinematografia Andrej Tarkovskij: «l'arte si rivolge a tutti nella speranza di essere, prima di tutto, sentita, di suscitare uno sconvolgimento emotivo».
Lo sconvolgimento emotivo è qualcosa di cui non riusciamo, spesso, a dar forma tramite le nostre parole, ma nonostante questo sappiamo che esiste e che, seppur in minima parte o per poco tempo, ha cambiato qualcosa dentro di noi.
Per quel che mi riguarda, anche i videogiochi possono originare questo tipo di sconvolgimento, ma non bisogna fare l’errore di ricercare questa caratteristica fondamentale in quelli che sono i mezzi espressivi tipici delle altre espressioni artistiche.
Quando ho scritto dell’evoluzione dei media artistici nel corso della storia ho sottolineato come la loro nascita sia legata a cambiamenti sul piano tecnico. Questo dato inconfutabile è essenziale anche per capire come la materia artistica viene veicolata per portare, sempre se ci riesce, quello sconvolgimento di cui parliamo. Ogni medium, insomma, ne ha uno: la pittura si affida all’immagine iconica e statica, la letteratura ad un fluire di parole che mettono in gioco l’immaginazione e l’astrazione del lettore, la musica rende suoni e silenzi armonia, e così via. Ci sono certamente arti “composite”, contraddistinte spesso dall’insieme di queste caratteristiche (il teatro e il cinema sono, ad esempio, un forte connubio tra arte figurativa, musica e letteratura), ma allo stesso tempo anch’esse forgiano un modo esclusivamente loro di creare lo sconvolgimento emotivo. Diventano dunque originali anche loro.
Nel videogioco penso che questo schema non solo può essere riprodotto (si tratta senza dubbio di un medium composito), ma anche ampliato: penso che il modo innovativo ed esclusivo con cui il videogioco generi in noi emozioni sia dato in maniera specifica dal gameplay, cioè dall’unione tra “immedesimazione” e “atto di gioco”.
Lo sconvolgimento emotivo da un’opera d’arte in questo medium deve avere la necessità di coniugare il messaggio che vuole trasmettere al gameplay.
In un gioco possiamo trovare spesso ottimi esempi di grande scrittura di storia e personaggi, un comparto tecnico allo stato dell’arte, grandi colonne sonore e così via. Quello che però dovrebbe rimanere (magari anche quando le caratteristiche di cui sopra non sono preponderanti) è l’immedesimazione e l’azione. Il videogioco, quando assurge a opera d’arte, riesce bene a farci percepire delle emozioni in una maniera che definirei “primitiva”: noi, immedesimati nel personaggio, viviamo in un altro mondo, assistiamo a determinati eventi, facciamo delle azioni ed in questo modo non possiamo non essere coinvolti in ciò che accade.
Tutto ciò è qualcosa che chi non ha provato difficilmente può comprendere.
Mi piacerebbe fare tre esempi tra i tanti.
Uno è Resident Evil, il primo. Ho giocato le versioni “remastered” dei primi due capitoli della saga che fecero uscire per Gamecube. Premetto che i film horror mi hanno sempre annoiato e, cosa più grave, non mi hanno mai effettivamente spaventato; per questo motivo partì assolutamente prevenuto prima di giocare. Eppure mi è bastato pochissimo per capire di come RE fosse diverso: mentre hai il pad in mano senti dentro di te la solitudine, la claustrofobia, il pericolo costante, la precarietà (una scelta geniale di gameplay sono le pallottole, la benzina e i salvataggi limitati). Tutt’ora ritengo la saga (fino al quarto capitolo) come un capolavoro dell’horror; Resident Evil è riuscito ad estetizzare e a far vivere in maniera diretta l’atavico sentimento della paura con la stessa intensità dei capolavori letterali di Lovecraft o Poe.
Il secondo esempio è God of War. Parlandone con un amico, fan accanito delle avventure di Kratos, mi sono reso conto di come il gameplay di ogni titolo della saga sia pensato e creato con lo scopo di dare una forma alla rabbia e alla violenza, tanto da riuscire ad avere un effetto distensivo sul giocatore.
Il terzo videogioco su cui vorrei riflettere è, infine, Super Mario Galaxy. Si tratta certamente di un titolo senza una grande storia, ma che ti fionda in un mondo (anzi, in più mondi) curati e costruiti così bene, a livello di level design e gameplay, da rendere le azioni che Mario compie in relazione all’ambiente (incredibilmente libere e divertenti) talmente armoniose da apparire quasi come “un balletto”, secondo una poetica descrizione del gioco da parte di un mio amico che sottoscrivo a pieno. Ed effettivamente, quando finisci il gioco, l’emozione data dallo stupore e della meraviglia, accompagnati da una colonna sonora e un comparto artistico ispiratissimi, non ha prezzo. In questo senso, Super Mario Galaxy è un gioco stupefacente.
Paura, rabbia, stupore. Tre emozioni primordiali che l’uomo ha da sempre provato e che in questi giochi, mediante l’uso in primis del gameplay, accompagnato da forti basi tecniche e artistiche, vengono vissute dal giocatore in maniera diretta. D’altronde pensateci: quante volte vi è capitato di riflettere su un videogioco in un momento successivo alla sua fruizione?
La mia personale (e giustamente criticabile) idea del videogioco come forma d’arte è quindi questa: non basta apprezzare una scenografia, una colonna sonora o una storia; bisogna sentire di aver vissuto, all’interno di sé, uno sconvolgimento emotivo dettato dall’azione e dall’immedesimazione, uno sconvolgimento che metta in gioco (è proprio il caso di dirlo) le nostre emozioni, dandoci spunti per sviscerarle, analizzarle, rifletterci, conoscerle. Le grandi opere d’arte, d’altronde, hanno sempre puntato a questo.
Un videogioco, preso a sé, è solo un ammasso preciso di freddi dati informatici. Solo l’uomo e la sua capacità di emozionarsi possono dargli una forma più profonda: la forma dell’arte.
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