Una piccola storia tra me e Fellini
- Alejandra Bolanos
- 19 apr 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 4 giu 2020
Quando conobbi il cinema avevo 12 anni.
A casa mia non si aveva una vera e propria cultura cinematografica, i miei genitori non conoscevano Kurosawa, Antonioni, Truffaut. Forse Kubrick e Hitchcock, ma non mi fecero mai vedere un loro film. Io ero ignorante, non sapevo nulla di cinema, non guardavo nemmeno la televisione. Ma ero un’appassionata di libri, divoravo le storie di grandi autori, e questo mise dentro di me Curiosità. Ai tempi delle medie avevo una professoressa che poteva essere benissimo un personaggio di un film, indossava solo le camicie del marito ormai defunto, e portava un collare stile punk, addirittura con gli spuntoni. Insomma, questa professoressa fondò un cineforum, al quale partecipammo nell’arco di quei due anni in meno di 10.
Dunque, a 12 anni conobbi Federico Fellini.

Il primo film che vidi fu Amarcord, che in dialetto romagnolo vuol dire “io mi ricordo” (a m’arcord), e da lì in poi un mondo spalancò le sue porte per me. Amarcord è uno di quei film di cui non ti stanchi mai, che puoi vedere da adolescente, cogliere alcune cose, e riguardarlo altre mille volte, scoprendo altrettanti dettagli magnifici. Sono storie di una Rimini antica, sacra, ma anche disinibita, fiabesca, di cui alla regia abbiamo un eterno bambino.
In particolare è messo in risalto il personaggio di un amico d’infanzia di Fellini, Titta, e di tutta la sua famiglia, coinvolgendoci personalmente nelle vicissitudini di una Rimini che non è solo 'Rimini': è appartenenza, cultura, tradizione, è casa. Rimini è tutto questo, per Fellini, il quale ci mostra la giovinezza, la fanciullezza, e poi l’abbandono di ciò che è casa per un nuovo mondo.
Le musiche di Nino Rota travolgono, coinvolgono, sono magiche. Un insieme di flauti e percussioni risuona in quel mondo, nel mondo di Fellini.
Amarcord è rimasto un’icona nel mondo del cinema, non a caso è stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare, vincendo un Oscar.

Due anni dopo aver visto Amarcord, il mio prof di Suono al liceo (un altro personaggio degno di un racconto di Flaiano) mi fece scoprire un altro meraviglioso capolavoro: 8½.
Ottoemezzo fu per me la consacrazione del mio cinema.
Uscì nelle sale nel 1963, e racconta la crisi di Guido Anselmi, un regista affermato, ma infelice, il quale sta elaborando il suo prossimo film.
La storia si alterna magistralmente tra passato e presente, sogno e realtà, mito e profano. La giovinezza di Guido è parte integrante del film, del suo film, i suoi rapporti con la chiesa, con la fede, con Dio. Il suo rapporto con i suoi genitori, secondo lui delusi. Nella storia di Guido la realtà è spaccata in due: da una parte il suo film, dall’altra l’Amore. Non solo della moglie da lui amata, ma anche dell’amante, e delle altre donne che fanno parte della sua vita: sua madre, la Saraghina, le attrici, le amiche. 8½ è la storia di un uomo che non sa accettare ma che comprende, che sa. Alla fine del film Guido accetterà, e avrà una catartica visione del mondo. Il suo mondo, come un circo che lui dirige, ma dal quale riceve, indistinguibilmente.
Il film è stato inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare, ricevendo lodi a livello mondiale, omaggiato da tanti altri Registi e Autori importanti.
Per me, 8½ è un film che, così come ne “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman, racconta la storia di un uomo attraverso la sua fine, o la fine di quel che era.
E nella sua fine, la sua rinascita.

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