Breve storia triste
- Alejandra Bolanos
- 28 mar 2020
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 4 giu 2020
Era una bellissima giornata di maggio, il sole brillava con intensità sulla mia testa, il cielo era di un celeste acceso e tutto, all’orizzonte, sembrava avere un senso. Mi alzai dalla mia postazione e mi stiracchiai annoiato, guardando i miei sudici e maltrattati piedi. La radio accesa stava trasmettendo canzoni noiose alle quali non prestavo attenzione. In piedi, guardavo la mia casa. Entrai in camera da letto e notai il disordine che vi regnava: cinque libri sul comodino, tutti letti a metà e macchiati di caffè, i vestiti sudati su una poltrona color crema e vecchia quanto il mio bisnonno, il letto disfatto, la piccola finestra aperta, i residui di un qualche alimento per terra (forse gelato). Mi grattai la barba, pensoso. Dovrò mettere a posto? Prima o dopo aver fatto colazione? Cosa mangio? Ci saranno le uova? All’improvviso squillò il telfono, lo presi e risposi. “Pronto?” dio, che voce di merda. “Hey, Ga, ciao, come stai?” era mia madre. “Ciao mamma. Tutto bene, credo. Tu?” “Bene. Senti, tuo padre mi chiede se può passare da te per le tre oggi, tu ci sei?” “Mamma, che domanda stupida. Sì, sì, ci sono. Perché non mi ha chiamato direttamente papà?” “Sta al mercato, prende la frutta, come sempre. E’ un po’ blue ultimamente. Gli servirà passare del tempo con te. Ora vado, ciao Ga” “Ciao mamma”, riattaccai. Buttai il telefono da qualche parte in mezzo a qualche camicia sporca. Mi chiusi la porta dietro di me, e mentre uscivo dalla camera da letto sentii suonare in lontananza Plastic 100°C di Sampha. Era la radio. Mi sedetti vicino alla musica e mi fumai una sigaretta, senza piacere. Di solito, quando mi capitava di ascoltare quella canzone, ricordavo sempre mio padre al pianoforte che suonava e cantava per me quelle parole agrodolci, facendomi compagnia nella mia infinita solitudine. Non poteva capirmi. Ma almeno ci provava, e questo per me era già tanto. Non so perché quella mattina fu particolarmente doloroso riascoltare quelle parole. Quando la canzone finì, rimasi ancora un po’ seduto per terra vicino alla radio. Mi era passato l’appetito. Ripensavo alla mia situazione, a quanto era stato difficile per tutti noi, da quando ero nato. Ripensavo a mio padre, che suonava e cantava per me. Ripensavo a mia nonna, che mi raccontava tutte le storie di tutti i parenti (a volte penso che qualcuna se la sia inventata, tipo che zio Ernesto abbia chiesto la mano a Zia Matilde sulla luna). Ripensavo all’infanzia mai avuta e alle amicizie mai coltivate. Pensavo a mia madre, che mi ha toccato solo quando sono uscito dal suo ventre. Ripensavo a mia madre, la donna che ho sempre amato, come ogni figlio ama la propria mamma, e al dolore che provavo ogni notte prima di andare a dormire senza averla mai abbracciata. Sono nato in un paesino che sta tra una montagna e il mare. Un piccolo paesino di 1000 abitanti, oltre i confini del mondo. Zaronte, così si chiama. I miei genitori sono nati entrambi a Zaronte, mio padre da una famiglia di fornai e mia madre da un padre poliziotto e una madre insegnante. Mio padre si chiama Luca, mia madre Eloise. Luca ed Eloise si conobbero a ventidue anni grazie ad amici di amici di amici di amici del cugino di un tale che aveva una agenzia di viaggi. Non lo conobbero mai, ma un giorno andarono entrambi a una sua festa e si parlarono. A quanto pare Luca le chiese se conosceva il padrone di casa, pensando che Lei fosse una sua amica, ma Eloise gli rispose che in realtà neanche lei sapeva chi fosse, e risero insieme. Parlarono per tutta la durata della festa e si accordarono per rivedersi il giorno dopo. E così anche il giorno dopo, e quello dopo ancora, così fino a che non divennero amici. Poi un martedì sera andarono al bowling e incontrarono amici, ma sfortunatamente quella sera c’era Francesco- mani-di-ricotta e per sbaglio lanciò una palla sul piede destro di mia madre. E via di corsa all’ospedale, con mio padre che le teneva la mano sull’ambulanza e le diceva che sarebbe andato tutto bene. E lì, mentre lei piangeva per il dolore al piede e lui le accarezzava le mani piccole, i due capirono di amarsi. Morale della storia: mia madre tutt’ora ha un piede storto ma quella
sera capì di aver trovato l’amore della sua vita. Ogni volta che mio padre mi raccontava questa storia ridevamo entrambi ed entrambi un po’ ringraziavamo Francesco-mani-di-ricotta per aver lanciato quella sera (erroneamente, eh) la palla da bowling sul piede destro di mia mamma. Luca ed Eloise si misero insieme. Dopo due anni di piccoli e insignificanti litigi, risate, gioie e vite separate, decisero di sposarsi e iniziare un nuovo capitolo delle loro vite, ma insieme. Si amavano, questo era certo, ma mia madre tenne sempre mio padre all’oscuro di una cosa. Ogni volta che Lui le proponeva una gita al mare, in barca a vela, lei aveva sempre qualcosa da fare, un impegno, un imprevisto, un appuntamento col dentista. Mio padre era innamoratissimo del mare. “E’ come un amico, per me”, mi ripeteva sempre da piccolo. E io credevo davvero che fossero vecchi amici. Comunque, un giorno mio padre s’irritò per gli insoliti rifiuti di mia madre, e le chiese qual era il vero motivo per il quale non voleva andare al mare, con Lui. Mia madre lo guardò un attimo con gli occhi di chi nasconde qualcosa da tutta la vita ma non ha per niente voglia di confidare il proprio segreto. Al contrario, mio padre era impazientito ed era risoluto a scoprirlo. “Soffro di mal di mare. In una maniera atroce. Rischio di morire se vado su una barca a vela, per quanto soffro il mal di mare.” Mio padre rimase incredulo davanti a tale dichiarazione, ma lo stesso la baciò e lo stesso si sposarono, l’anno dopo. Mio padre ogni tanto andava al mare, ne aveva bisogno, aveva bisogno di stare sulla sua grande barca a vela, ma non ci portò mai mia madre, la quale rimase sempre seduta sulla spiaggia con il suo grande cappello che la riparava dal sole. E poi, un giorno, la meravigliosa sorpresa. Dopo giorni di nausea e un appetito ambiguo, mia madre comunicò a mio padre la cosa che più avrebbe reso felice Luca in tutta la sua vita. “Amore, sono incinta. Aspetto un bambino.” Mio padre pianse dalla gioia e tra le risate di entrambi e i baci e gli abbracci si giurarono ancora una volta amore eterno. Passarono i mesi, ed entrambi erano impazienti del nuovo arrivato. Prepararono una stanza con le mura dipinte di giallo, una culla color crema e tanti tanti peluches, un carillon e coperte morbidissime. Arrivò il fatidico mese, e finalmente, un mercoledì notte tra le urla di mia madre e la paura di mio padre, nacqui io. Mia madre mi abbracciò tra le lacrime, sfiancata dal lungo travaglio. Mi baciò, mi trasmise il suo grande amore e dopo si addormentò. I medici dopo due ore dissero a mio padre che mia madre doveva riposare tantissimo, che aveva contratto una malattia (cui nome mio padre non si ricorda, non mi ha mai detto), e che sarebbe rimasta in ospedale per due settimane. Già dai primi giorni a casa mio padre notò che in quel piccolissimo frangente di vita c’era qualcosa che non andava. Non smettevo mai di piangere, vomitavo, mi saliva la febbre. E tutto ciò a pochi giorni dalla mia nascita. Allora un giorno mio padre, preso dalla disperazione, mi portò sulla barca a vela. Cambiai in un secondo, smisi di piangere, mangiai, e dormii per quindici ore di seguito. Dopo due settimane mia madre ancora non si era del tutto recuperata e stava ancora in ospedale, ma mio padre aveva capito che appena mettevo piede sulla terra ferma era come se mi ammalassi, come se soffrissi atrocemente. Dunque, rimasi sulla barca a vela. Questo, fino a che mia madre non si recuperò. Quando mio padre le disse che non c’era altro modo per farmi stare bene, mia madre gli urlò contro e si arrabbiò ferocemente, e gli disse di portarmi a casa nel mio lettino, insieme a Lei. Io avevo già tre mesi di vita quando mio padre mi portò fuori dalla barca, e dopo il primo passo sulla terra ferma il mio stomaco decise di ribellarsi, facendomi vomitare tutto ciò che avevo ingerito. Quel pomeriggio sono quasi morto. Fecero in tempo a chiamare un dottore il quale mi visitò per due ore e poi disse serio a mio padre, guardandolo negli occhi “il bambino soffre di mal di terra, e lo soffrirà per tutta la vita. L’unico luogo dove può vivere tranquillamente è su una barca, qui”, e se ne andò. Quando mio padre lo disse a mia madre, lei si chiuse in camera sua per cinque mesi. Non uscì e non si fece vedere da nessuno, lacerata dentro da un dolore che solo una madre che ha perso il proprio figlio può capire. Passarono gli anni, e le uniche persone che venivano a trovarmi erano mio padre e mia nonna Eleonor, madre di mia madre. Gli altri parenti non si erano mai preoccupati di venirmi a fare un saluto, o portarmi regali per il mio compleanno. Mai. Eppure, vivevo bene. Avevo imparato in quei primi 14 anni della mia vita ad essere il Capitano non solo della mia barca, ma della mia vita stessa. Mio padre rimaneva spesso con me, ma viveva comunque con mia madre. Anche mia nonna, che non aveva più marito, stava con me spesso. Però capivo benissimo che entrambi avevano le loro rispettive vite.
A volte la notte pensavo a mia madre, pensavo al rapporto che nei film, nelle canzoni e nei libri hanno un figlio e una madre, e nonostante tutto provavo anch’io quell’amore incondizionato nei suoi confronti.
Comunque ci tenevamo sempre in contatto, fin da subito. Mi chiamava, mi cantava le canzoni della buonanotte, mi raccontava le favole e mi parlava di Lei. Ci scrivevamo spesso lettere.
Un giorno mi scrisse una bellissima lettera, la quale diceva:
“Caro Gabriel,
sono molto orgogliosa di te. Papà mi ha detto che finalmente sai cucinare da solo e che addirittura hai cucinato per lui e per nonna! Non vedo l’ora di assaggiare una tua pietanza (anche se le mie non le batterai mai). Sai, stamattina sono andata al cinema da sola, ma non dirlo a papà. A volte ne ho bisogno, è la mia barca segreta, ma niente di unico o particolarmente speciale. Hanno proiettato quel vecchio film di Fellini, Otto e mezzo, e mi sono emozionata. Ero seduta al solito posto tra le ultime file, sulla destra. Devi assolutamente vederlo, è meraviglioso! Forse mi vedo un po’ in Mastroianni, con le sue crisi esistenziali e bla bla bla. Puoi capirmi.
Domani pomeriggio passo verso mattina sulla spiaggia, come sempre. Ci vediamo comunque lì. Zia Matilde ha avuto il terzo bambino, sai? Ora stanno in Australia, a quanto pare. Che matti che sono, io non riesco a spostarmi da questo stupido paesino. Sono scema? Dimmelo tu.
Ti voglio bene Mamma
p.s. ti mando insieme alla lettera il dvd di Otto e mezzo. Ti interrogo, fattelo piacere”.
Con il passare degli anni ho capito com’era mia madre, forse molto più di tutte quelle persone che l’avevano conosciuta dal vivo. Ci confidavamo i più intimi segreti, le nostre paure, le insicurezze. Le parlavo delle ragazze di cui mi innamoravo (perlopiù erano personaggi di film, libri o canzoni di Bruce Springsteen) e lei mi raccontava le marachelle di papà, e di come la rendeva felice. ci mandavamo qualche pensierino, ogni tanto. Dvd, libri, un portachiavi, una collana di conchiglie, una foto di mio padre da giovane. Cose così. Era speciale il rapporto che avevo con lei, molto profondo e intenso. Ma mi mancava, mi mancava una parte essenziale di me.
Ma lei faceva parte della terra, e io del mare. Eravamo uno l’antitesi dell’altra.
“forse con il tempo uno dei due supererà tutto questo”, mi dicevo tra me e me. Ma con il passare degli anni compresi che ciò che avevamo io e mia madre era più di una semplice fobia, di una semplice paura o malattia. Era appartenenza. Il mare era la mia casa.
Non mi sono mai innamorato davvero in vita mia, e spesso ho provato in giorni di pura follia a buttarmi giù dalla barca e nuotare fino alla spiaggia, sperando di riuscirci. Ci sono stati giorni in cui avrei voluto morire soffocato, ma il mare è immenso ed io non sono claustrofobico.
A 19 anni mio padre mi fece conoscere una ragazza di nome Alice, ragazza che scriveva per il giornale dell’unica università di Zaronte, la quale mi fece qualche domanda, si ubriacò con me e con la quale feci l’amore, intensamente e con un sentimento sconosciuto. Scrisse di questo ragazzo che non aveva mai vissuto sulla terra ferma, pubblicò l’intervista e non la rividi mai più. Ora, dieci anni dopo, ancora ripenso a quello strano sentimento talvolta. Ma non più di tanto e non dedicandogli tanta attenzione.
Una volta sognai un fiore di margherita sbocciato a bordo, sulle assi di legno al centro della barca. Sognai di sdraiarmici accanto e di guardarlo, far parte dell’oceano che ero e risvegliarmi deserto.
Alle tre in punto arrivò mio padre con una lettera da parte di mia madre. La lessi, il giorno dopo sarebbe rimasta tutto il giorno sulla spiaggia. Parlai con papà e gli chiesi cosa cazzo succede che sei malinconico, vecchio brontolone. Ridemmo, e bevemmo birra. Quando arrivò la sera mentre usciva dalla barca e indossava il suo cappello da cowboy si girò verso di me e mi disse “sai, ho letto le lettere che scrivi a tua madre. Posso chiederti un favore?”
“Ma certo, dimmi” risposi dubbioso. “Scrivi di noi. Ciao Ga” e se ne andò.
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