Mille lire di ciuccetti misti
- Alessandro Bego
- 17 mag 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Esistono frasi che entrano in testa e rimangono dentro per tanto tempo in quanto fanno parte di un determinato periodo della propria vita che nel bene o nel male saltuariamente si tende a rievocare. Per alcuni potrebbe essere un detto popolare ripetuto alla nausea da un genitore, per altri una filastrocca o un modo di dire, magari nel proprio dialetto. Nel mio caso c’è una frase legata all’infanza e alla pre adolescenza:
“Mille lire di ciuccetti misti”.
La sentivo almeno una volta alla settimana, prima o anche dopo il catechismo, al baretto del patronato. Era abitudine tra noi ragazzini trovarsi lì addirittura mezz’ora prima per consumare un abbondante sacchetto di quelle caramelle gommose zuccherate. Il pretesto non era tanto quello di ingozzarsi di porcherie, ma più semplicemente di trovarsi in un posto diverso dalla scuola. Eravamo tutti compagni di classe e frequentavamo pure la stessa parrocchia ma per noi andare a catechismo voleva dire essenzialmente trovarsi al bar.
Se chiudo gli occhi posso ancora percepire suoni, rumori e odori del posto. Il bancone in noce chiaro, il piano di granito, i tavolini e le sedie in abbinato color nero oltre alla signora Enrichetta che faceva parte dell’arredamento. Lei era sempre là, a esaudire le nostre richieste : il pallone per i ragazzi al campo di calcetto, il caffè per il catechista o le gomme da masticare con le figurine dei calciatori (quelle delle introvabili Volpi e Poggi).
Quello è stato il mio primo bar.
Un posto dove dei bambini/ragazzini di età compresa tra gli 8 e i 12 anni potevano stare in tutta tranquillità e sicurezza perché era un po’ come stare a casa, seppure per un breve lasso di tempo.
Oggi, ai tempi del Coronavirus, purtroppo un bar è diventato un luogo prima chiuso e bandito, per poi essere rivalutato e snaturato in ogni sua forma e in ogni suo utilizzo.
Chi ha deciso di riaprire lo ha fatto giustamente adeguandosi con responsabilità alle norme che impongono il sevizio da asporto.
Si entra, magari dopo aver fatto una coda all’esterno, si ordina, si paga e si porta via. Basta.
Che automatismo freddo e cinico.
Asporto poi è un termine che all’apparenza indica un servizio. Di fatto vengono subito alla mente le pizzerie, ma la derivazione é dal verbo asportare che riconduce ad ambiti ospedalieri e chirurgici e non di ristorazione. Alcuni sinonimi possono essere rimuovere, levare, togliere e eliminare. Non è un verbo che trasmette positività se lo si va a analizzare per l’uso comune.
Così facendo imponendo per ovvie ragioni il servizio di asporto al bar si toglie pure la scena principale al perno portante del locale, ossia il barista. Autentico mattatore che da dietro il banco era abituato a intrattenere la clientela oltre che a servirla. Potrei quasi affermare che le migliori chiacchierate le ho fatte con i baristi.
Ascoltano, ribattono, questionano, consigliano, raccontano, inventano.
“Fanno palco” come si dice dalle mie parti. Ora invece si devono comportare come un farmacista che con un rapido “buongiorno prego grazie arrivederci” ti liquidano perché devono servire il banco nel modo più rapido possibile, senza creare assembramenti. Ma volete mettere il gusto di poggiare i gomiti sul bancone e di venire anche ripresi?
Trovo giusto che abbiano regolarizzato le riaperture dei locali con queste normative severe dato che ne potrebbe valere della salute della collettività. Con tutta franchezza però bersi lo spritz per asporto lo trovo così atipico, tanto quanto stare con le scarpe dentro casa propria. Specialmente se sei nel bar del tuo quartiere che hai sempre frequentato al punto tale da sentirti parte di una grande famiglia.
Se ripenso a questo inverno mi pare passata un’eternità, quando finito lavoro mi fiondavo a bere lo spritzetto. Era un rituale quasi sacro. Entravo e potevo essere sicuro di trovare le solite persone che nel tardo pomeriggio abitualmente compievano il suddetto rito. Non c’erano appuntamenti pre stabiliti o accordi, si arrivava già sapendo di far parte di una sorta di celebrazione collettiva del momento. Chi aveva finito la giornata lavorativa come me, chi iniziava a lavorare perché doveva andare a aprire la pizzeria, chi a lavoro non ci doveva più andare perché in pensione. Era piacevole perché si stava tutti insieme, cosa che questo maledetto Covid ci ha tolto, anche se per poco. Proprio lo stesso spirito che avevo al bar del patronato quando chiedevo un chinotto. Solo con vent’anni in più e tanta malizia.
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